lunedì 5 dicembre 2011

South Sudan
Bor,15-3-07
 
Homo sum, Nihil Humani a me alienum Puto.
 
 
“Nihil Humani a me alienum puto”,cosi’ scriveva Terenzio il  filosofo prima dell’anno domini…nel 165 a.c.
..eppure quando guardo le genti che popolano questi luoghi, dove un nuovo progetto mi ha portato, mi domando quale differenza possa esservi tra loro e degli uomini che vivevano cinque mila anni orsono, e visto che la risposta e’ che non vi e’ differenza, non riesco a rendere attuale la frase d’inizio…
Non e’ un discorso razziale il mio ma una pura constatazione antropologica..
..Nessuno di noi era presente cinque mila anni fa, ma a vedere lo stile di vita di questi luoghi credo che possa essere molto reale come scenario.
Case di fango e rami a pianIMG_4697ta circolare col tetto in paglia, compresa una grossa capanna fatta nello stesso stile per dimorare Ie greggi la notte a difesa di animali predatori, il misero pasto di sorgo o miglio che viene prima pestato in un mortaio di legno con un lungo pestello e poi macinato a pietra, acqua scarsa e mandrie di mucche dal peso di una ventina di chili per capo con tutte le ossa sporgenti, le innumerevoli capre che tentano di brucare qualunque cosa abbia una somiglianza con un filo d’erba…inesistente in pratica dato che non piove da cinque mesi….
Una polvere sottilissima viene costantemente sollevata da turbini di vento e penetra ovunque, nel naso negli occhi, copre tutto e la trovi persino nelle lenzuola quando cerchi di dormire la notte con trentacinque gradi di calore…
…Un nuovo progetto umanitario, l’ennesimo tentativo di portare un minimo di sviluppo in questo luogo decisamente remoto raggiungibile dopo quattro ore di volo da Khartoum sino a Juba e poi quattro ore di jeep in un paesaggio costante che pare di essere davvero su un altro pianeta e non semplicemente in un continente diverso…
…Stiamo costruendo due scuole che difficilemente verranno terminate per l’apertura dell’anno scolastico ad aprile…
…Un calore inimmaginabile avvolge tutto e impedisce anche semplicemente di pensare, di riflettere sul da farsi…
E pensare che questo popolo si e’battuto per vent’anni per togliere l’egemonia di Khartoum da questi luoghi, luoghi brulli, aridi, con qualche raro albero di mango e poi il nulla, sterpaglie e cactus…
…e’ una cosa che affascina vedere come l’uomo sia profondamente attaccato alle sue radici, fossero anche radici secche, avvizzite e vuote di linfa…
…uomini che hanno imbracciato un fucile e difeso per due decadi questo nulla eterno..
…gente senza sorriso, aggressiva e orgogliosa…
..Tanti profughi che avevano trovato rifugio in Kenya o in Nord Uganda stanno facendo di tutto per tornare a casa, lasciando luoghi decisamente migliori di questo…
..Eppure anche qui come gia’ mi e’ accaduto di notare in altri luoghi d’Africa, non manca la birra; nei rari chioschi che affiancano la strada principale le casse impilate all’esterno arrivano anche oltre I due metri..
Al solito mi siedo dopo il lavoro e osservo questa gente passare sulla strada, gente brutale, basata su un maschilismo avvilente dove gli uomini fanno ben poco tutto il giorno, speso molto a dormire sotto un albero o su un materasso dietro l’ombra della capanna, i bambini vengono mandati a pascolare le bestie sino al periodo delle piogge quando l’erba riscrescera’ e non vi sara’ piu’ bisogno di portare al pascolo le mandrie e quando per allora sara’ impossibile per loro raggiungere la scuola a piedi perche’ tutta la zona diventa un’immensa palude di quattrocento chilometri lungo il Nilo bianco, e dove le donne come sempre fanno quello che possono oltre a subire la forza degli uomini, la fatica della casa, dei campi, della prole della vita…
Le donne….credo che l’Africa sprofonderebbe in una settimana senza le donne d’Africa, e forse non solo l’Africa…
Donne spesso piene di vita nonostante la vita, ma non qui purtroppo, qui la miseria ha tolto loro anche quello splendido dono, quel tocco magico che tanto affascina, quel semplice sorriso, leggero a volte, sottile, impercettibile, a volte largo, gridato, ricco di gioia , accompagnato dal loro sguardo unico e sensuale…
..L’aridita’ di questi posti, la Guerra, la miseria, la violenza reiterata, si sono portati via tutto, persino il semplice gesto di un sorriso..
“Nihil Humani a me alienum puto”…(?)...venire per credere…


 ...c'era questo guerrigliero che andava in moto con un pappagallo fissato al manubrio, ci siamo affiancati con la jeep a pareva quasi che il pappagallo se la spassasse.. ..Ho tirato giù il finestrino e gli ho detto "hey fermati che facciamo una foto"...              


 Congo - La sera

Seduto, solo, con una birra in mano e una sigaretta nell’altra, guardo assorto avanti a me, la sera avanza all’esterno della veranda di questo piccolo caffè, un numero infinito di persone mi passa davanti agli occhi ognuno col proprio destino sollevando  dalla strada una polvere costante, leggerissima e impalpabile che va’ ad avvolgere ogni cosa.
L Africa mi fa’ riflettere quando non vorrei, quando avrei bisogno di ben altro, di essere lontano da qui’, lontano dal Congo, da questa foresta, da questa gente; povertà infinita, squallore sino nell’anima, occhi neri come la notte, bui nel buio, il buio della ragione iniettata di sangue.
Bevo, la birra non mi da’ più neppure quel piacere di distacco momentaneo, bensì provo tutto l’acido che ne contiene, bevo e faccio un paio di tiri di queste sigarette locali.
Locali come questo film di esseri umani che mi passa davanti, partoriti da un medioevo dei tempi moderni fatto di povertà e fucili, mitragliatrici e Kalasnikov, miseria e proiettili e morte ad aggiungere miseria e desolazione, bambini svuotati di ogni pensiero incapaci di piangere, paralizzati nelle parole, e donne dallo sguardo nullo, con una messa a fuoco verso un improbabile infinito, senza più sorriso, usate stuprate da ogni soldato.
ITURI, Nord Est Congo, una delle zone più ricche del pianeta dove la guerra razziale ha tolto e spento migliaia di corpi e menti, dove i diamanti hanno tolto la luce, l’oro ha tolto ricchezza per portarla altrove, fittizia/ effimera/ superficiale, i pregiati legnami probabilmente nei salotti dei ricchi nel mondo, inconsci che sotto i loro piedi non hanno pezzi di legno ma intere vite umane.
Non e’ facile lavorare tutti i giorni con venticinque mila sfollati; il solo spostarsi verso i loro campi con la Jeep spesso e’ una mezza odissea, per la pioggia ,la strada fangosa e piena di buche, pietre e a volte piante capovolte dal vento.
Da più di un anno vivono in capanne di fango e rami, ma non riesco più ad avere compassione o un sentimento di pena per queste genti, aggressive selvagge brutali, come la guerra che li ha generati; forse il buio della ragione si e’ esteso sino a me ed ha oscurato anche la mia anima; un “girone” di indifferenti vi s’e’ insediato.
Bevo, osservo, guardo, ma non riesco ad avere nuovi occhi per provare un vero viaggio di scoperta in queste terre.
Tutti mi guardano al loro passare, guardano l’uomo bianco e l’uomo bianco li guarda; l’uomo bianco che lavora per l’organizzazione internazionale, che coordina progetti, che scrive nuovi programmi, che dispone di capitali, che assume o licenzia, l’uomo bianco che sta’ male, male a vedere quanto abbia inciso la colonizzazione in queste terre africane per ottanta, cent’anni.
Un retaggio di servilismo, rancore, invidia ed odio governa la gente, invidia della pelle bianca al punto che spesso vedi per la strada persone con la faccia sfigurata dai prodotti chimici per schiarire la pelle; una vera aberrazione mentale.
Faccio un tiro di sigaretta e penso a quanto sia costretta la vita di noi espatriati in terre lontane, dove non e’ certo l’effimera possibilità di usare un cellulare ad accorciare le distanze, perché un telefono accorcia il tempo e non lo spazio.
Spesso parlo con i colleghi di altre organizzazioni, eccone uno che passa con la sua Jeep sulla strada...potenziali naufraghi, alla ricerca di noi stessi in fondo, solo che il genius loci non rappresenta certo il tronco più adatto a cui aggrapparsi.
Non sono certo gli “agi” di cui disponiamo a placare la solitudine, la mancanza di rapporti sinceri, l’impossibilita’ di inserirsi minimamente nella realtà locale...
...perché l’uomo africano e’ a cento anni da noi, sì cento , ma si tratta di anni luce, un salto incolmabile ci separa, ed e’ un salto nel modo di pensare, non nello stile di vita.
Accendo un’altra sigaretta, questa sera non è sera, uno strano crepuscolo mi avvolge, mi soffermo su di me, sui miei pensieri, penso ai colleghi che vedo la sera dopo il lavoro, parlano di progetti, di gente, di capitali , di spostamenti di militari, di battaglie, ed ecco che mi accorgo di ciò che non mi convince….
…l’indifferenza…
… mi pare così, che abbiano sviluppato una sorta di autodifesa  alla violenza di questi luoghi, una specie di abitudine per immunizzare l’anima….
E’ questo che non voglio, voglio restare con l’orrore per le cose brutali, con il rifiuto dell’accettazione, con lo spavento per l’ignota destinazione di questi popoli.
Bevo, fumo, penso che gli africani dovrebbero essere responsabili del proprio futuro, perché così come è vero che il capitalismo occidentale ha bisogno di queste terre, di questi sottosuoli, è vero anche che capita di vedere questi popoli nell’imitazione peggiore di ciò che l’uomo bianco ha esportato di sé, eppure non mi sento di dire che la colpa sia tutta degli uomini dalla pelle chiara.
Spesso la pietà è figlia della presunzione e credere che il destino prossimo dell’Africa dipenda in maggior grado, se non addirittura, esclusivamente dai paesi  sviluppati è forse un modo per reiterare in una forma differente e più sofisticata una forma di colonialismo.
Credo che bisogna avere il coraggio di ammettere che sotto non pochi punti di vista l’Africa è anche artefice in parte della propria condizione, e penso agli svariati dittatori che tanto poco han fatto per lo sviluppo dei propri paesi e che tanto han fatto invece per distruggere la speranza e a tutti questi militari che niente conoscono al di fuori della violenza.
Non responsabilizzare gli africani di parte della loro situazione varrebbe come considerarli altro dall’essere umani.
E poi ci sono sì gli uomini bianchi, con la loro fretta, presunzione, di capire, di sapere, di risolvere, lontani dalla semplicità che contraddistingue l’uomo comune africano, poveri sciocchi bianchi che pensano di poter applicare sempre delle schematiche imparate a tavolino in comode stanze in Europa, quando la realtà è invece così lontana dagli schemi, dalla logica, dalla teoria.
Siamo così incapaci di guardare dentro le cose, così sicuri di essere portatori di verità e non sappiamo guardare dentro i loro pensieri dentro il loro mondo.
Magari per il nostro solo bisogno di compassione e consolazione, che si esaurirà in fretta, molto in fretta, perché e vero, sicuramente vero, abbiamo così tante cose da fare…!
O forse nessuna…
La sigaretta è finita, la mia possibilità di dare anche, di ricevere pure.
Ho deciso, a fine progetto  parto.   Addio Congo

I PIGMEI....


Dunque quella con i pigmei ( che poi si vedono un pò poco sullo sfondo) è stata proprio una bella giornata.
 ..Eravamo a fare distribuzione in una zona molto circondata da foresta e ad un certo punto sono sbucati i pigmei dal folto della selva..
Avevan certe espressioni come per dire " beh vogliam bene qualcosa anche noi".. Io ero un pò titubante perchè avevo stabilito col mio staff delle regole precise: niente cibo a militari o a chiunque non facesse parte degli sfollati.
Il progetto che stavamo portando avanti per conto dell'unione europea prevedeva infatti un aiuto alimentare mensile per 37.000 sfollati scappati dalla guerra due anni prima, una delle tante guerre che attanagliano l'africa.
Oltre a distribuire cibo (mais, fagioli, olio e sale) davamo anche altre cose utili quali coperte, pentole, teli cerati per il tetto delle capanne.
Stiamo parlando di un progetto di emergenza e non di sviluppo qundi eravamo in una situazione decisamente stancante con svariati problemi da risolvere ogni giorno...
Più volte durante il turno che prendeva una settimana per distribuire lungo un asse di 70 chilometri, uno dei campi era stato circondato da militari che volevano un pò di cibo anche loro..
Ricordo ancora la tensione di quei momenti e la brillante soluzione che trovai, oddio, più che brillante fu un vero e proprio tentativo di quelli " o la và o la spacca"..
Praticamente per forza di cose dopo poco tempo che mi trovavo in queste terre ero arrivato ad avere il numero di telefono cellulare di diversi ufficiali dell'esercito ( eh sì anche in un posto circondato dalla foresta più grande dell'africa la telefonia è arrivata ), stessi ufficiali con i quali facevo qualche partita a biliardo la sera tra una birra e l'altra...più che altro ci giocavo per tenermeli buoni.
Ho sempre pensato che in un paese dove vige un regime militare sia decisamente pratico avere qualche contatto nell'esercito, insomma alla fine una cosa o la accetti o la rifiuti in toto e quindi in un paese non ci vai proprio.. eccomi dunque in una situazione di pericolo...circondato da militari affamati, armati alla bisogna per fare un bel saccheggio nel nostro campo di distribuzione...dovevo trovare una soluzione alla svelta e che fosse anche dignitosa per loro..
Per giunta tutta la conversazione si svolgeva in swhaili quindi il mio assistente doveva tradurmi ogni cosa.. ...ecco che viene a galla nella mia mente la soluzione e dico: ....
Mi piacerebbe proprio potervi aiutare ma i vostri superiori, il colonnello Evarist e il maggiore Birochu, mi hanno sempre raccomandato di non dare cibo ai soldati... Sudavo...sudavo freddo sotto al mio cappello di paglia...il mio interprete traduce e loro, i soldati, cambiano subito espressione si guardano un pò tra di loro, bofonchiano qualcosa poi si avviano ai limiti del campo, li saluto in swhaili, tornano nei loro ranghi lentamente..
Il mio aiutante mi guarda sorpreso e dice : Hey boss non sapevo che gli ufficiali vi avessero detto una cosa simile?! -ah non lo sapevi eh? beh nemmeno io ! Mi guarda e ride sorpreso e divertito... Un pò sorrido anch'io, anche stavolta è andata..
Dopo dieci minuti arriva un altro mio aiutante e mi dice: hey capo abbiamo un altro problema.. 
-Ma coooosa c'è ancora? oggi non è giornata eh...
-Ci sono i pigmei che vogliono una razione di cibo..
-I pigmei? e da dove saltan fuori i pigmei?
-Dalla foresta capo..
-Grazie quello lo immagino anch'io, va beh andiamo a vedere questi pigmei..   Per la miseria non avevo mai visto degli esseri umani più strani e interessanti di questi.. decisamente piccolini, furbi  con espressioni primitive affascinanti.. Anche qui dovevo trovare una soluzione . Non essendo parte del gruppo degli sfollati non avremmo potuto aiutarli, ma a guardare la loro denutrizione mi veniva decisamente sconforto...
Penso e ripenso, non posso certo decidere di dare la stessa dose di cibo che diamo agli sfollati, l'ultima cosa che voglio è creare un conflitto tra gli autoctoni, in questo caso i pigmei , e gli sfollati.. ...sicchè decido di dar loro un aiuto forfaittario, più che un tot a persona un tot a villaggio quindi, e trattandosi di gente che veniva da un villaggio solo la cosa ci è andata bene.. Le loro espressioni di giubilo mi colpirono particolarmente perchè in netto contrasto con la loro abituale serietà in volto. Dopo la distribuzione mi invitano con i miei aiutanti a raggiungerli nelle loro capanne a quaranta minuti di cammino nella foresta.. ..
Ci siam guardati un pò indecisi ma poi ho tagliato la testa al toro, ma sì perchè no andiamo. E così eccoci la nel loro villaggio fatto di normali capanne di rami e fango secco, ottime per tener via il caldo e copertura in foglie di banano ideali contro la pioggia..
Mangiamo un pò di carne di capra arrostita poi arriva il dessert...cavallette fritte... Ottime, già in Uganda ne mangiavo sempre e vi dico che la prima volta fù un vero tour de force per assaggiarne una..non ho più smesso poi..
Finito il pasto ci si dà ai giochi e il capo villaggio mi indica dicendo che "l'uomo bianco" non sà tirare con l'arco... Lo guardo ferito nell'orgoglio dei miei ricordi quando da bambino mi costruivo da solo arco e frecce con i rami dei salici che avevamo in giardino cercando di imitare le gesta di Tom Sawyer... -Io dico che " l'uomo bianco centrerà almeno una volta quell'albero laggiù invece" ...
Ovvio che scelsi un albero bello grosso, però devo dire che non avevo badato a spese in quanto a distanza...era almeno e venticinque metri.. Con un pò di rammarico circa la scelta dell'albero mi preparai dunque alla competizione..
Tutti ridevano e bevevano birra di palma, un alcolico deleterio che se non sei abituato ti fà svenire solo per la puzza
 ...Ebbene a fine tenzone non uscii da vincitore ma almeno tre frecce su cinque tiri le scoccai nella corteccia di quel poderoso obece...il capo ovviamente fece meglio di me con cinque su cinque, ma l'onore era salvo !
Salutiamo tutti caldamente e mentre stiamo per riavviarci nella foresta per tornare alla jeep il capo villaggio ci segue e ci chiama indietro.. ..Vuole donarmi una cosa, una gallina bianca.. ..
I ragazzi del mio staff mi spiegano che tra i pigmei di questi luoghi la gallina bianca è un simbolo di pace e rispetto quando viene donata.. La accetto con grande orgoglio, ci salutiamo nuovamente e lo ringrazio di cuore.. mentre lui stà già masticando delle foglie di tabacco..
Durante il tragitto in foresta m'incuriosisce la dimensione ridotta della gallina, è davvero fuori dal normale, mi ricorda le galline americane che vedevo in alcune cascine da ragazzo che da noi chiamano americanelle.. ...
Hey ragazzi dico non sarà mica pigmea anche la gallina eh ?  ..
Una risata generale si levò dalla foresta..


Rifugiati

Congo, l’elicottero rollava sulla pista gettando polvere ovunque circolarmente, ero vicino alle pale e mi spostai un po’ di lato, poi decollò ed io restai sulla verticale con i capelli schiacciati sulla testa, sotto l’elicottero spiccavano due grandi lettere sul fondo bianco: UN...
Nazioni Unite....la missione piu’ costosa della storia, 600 milioni di dollari l’anno, in una delle zone piu’ ricche del globo dove soldati di ogni risma si ammazzano per accaparrarsela: Nord Kivu/Ituri, Est Congo…
Tornai alla Jeep decisamente sudato, con la maglia appiccicata alla schiena come i miei pensieri nella mia testa, ossessivi,schiacciati  sul palato, amari.
Pensavo che da tempo la coscienza se ne fosse andata via lungo il lavandino ed invece eccola qua...
Rifugiati, soggetto e oggetto del mio progetto in queste terre, bellissime,stupende, devastate,trentaduemila rifugiati scappati dalla regione vicina ricca di oro, diamanti, coltan,petrolio,uranio, legnami pregiatissimi, rifugiati svuotati di dignità, ridotti a numeri sui fascicoli dell’Unione Europea, marcati con numeri sulle braccia per la distribuzione di cibo, in condizioni disumane dove la miseria non e’ semplicemente una parola su un foglio,ma come diceva Cesare Pavese, ha anche la sua puzza.
Sfruttati da tutti, dai soldati, dai governi, dalle popolazioni locali, dalle organizzazioni umanitarie per ottenere i progetti di emergenza...emergenza? e’ una cosa che svuota il corpo, altro che emergenza, sfruttati persino da chi, tra loro, si occupa di gestire la situazione.
E’ mattina ,mi avvio sull’asse Beni- Eringeti,limite della regione, una strada sterrata che a tratti sembra il letto di un torrente dove anche la Jeep si rifiuta di avanzare.
Il verde della foresta e’ accecante, un cielo di piombo incombe dall’alto, e’ la stagione delle piogge eppure proseguiamo nel tragitto, ai lati della strada centinaia di persone vanno avanti e indietro verso destinazioni ignote.
Ci fermiamo a mangiare qualcosa in una specie di locanda improvvisata dove una ragazza di una bellezza statuaria ci porta fagioli bolliti e banane grigliate, il tutto in una lentezza cosmica, il tempo in africa sembra essere una quarta dimensione, una cosa a noi sconosciuta, così come gli spazi, infiniti, pur trovandosi in mezzo alle montagne, paesaggi costanti per centinaia di chilometri, dove i bambini spesso rincorrono la macchina per salutare il Muzungu, l’uomo bianco.
Le case dei locali fiancheggiano il tragitto, vengono realizzate con una struttura intrecciata di tronchi e rami, una sorta di gabbia, che viene poi riempita di terra ridotta a fango che una volta seccata forma delle pareti di una consistenza inaspettata; lo stesso per il tetto che viene poi coperto da tegole di legno o erba a più strati, chi ha la possibilità usa la lamiera ondulata.
C’e’ una miseria diffusa che non avevo incontrato in Uganda, non c’e’ lavoro se non quel minimo per sbarcare il lunario, dove anche andare nella selva a fare legna diventa una attività indispensabile.
Arriviamo al campo, e’ solo l’una del pomeriggio e sono già stravolto dal caldo, il presidente del campo ci viene incontro ossequioso, lo saluto: Abari Musei- MusuriAbari-Musuri asante sana, entriamo in una capanna a pianta quadrata, tetto in erba, caldo soffocante.
Dopo pochi istanti la stanza si riempie dei rappresentanti di ciascun campo, nella zona ce ne sono 17, tutti sotto il nostro progetto.
Se c’e’ una cosa che gli africani considerano indispensabile alla vita quasi come l’aria che respiriamo e’ il meeting, il raduno, l’incontro.
Sotto un albero, sotto una roccia, in fianco ad una cascata, in una casa di qualche personalità, sotto una tenda, in uno di questi posti ,se siete in africa per lavoro, prima o poi vi troverete a dover spendere non meno di un paio d’ore.
Si parla, si espone , si discute, si chiacchiera, il tutto per chiarire la modalità della prossima distribuzione di cibo e altri generi, ogni capo dice la sua, poi arriva il mio turno, decisamente imbarazzato dalla situazione m’inoltro in una spiegazione del mio punto di vista in modo estremamente diplomatico per non offendere nessuno, la mia traduttrice mi da’ man forte ripetendo con voce d’usignolo le mie parole, a tratti la guardo mentre parla,la sua voce mi cattura e quasi perdo il filo del discorso...
...e invece no, ce l’ ho fatta ad arrivare in fondo, ho dovuto mantenere le disposizioni avute dall’organizzazione senza ledere la loro dignità.
Praticamente il progetto considera anche il fatto che qualora si continuasse a mantenere la stessa quantità di cibo data nelle prime distribuzioni potrebbe essere un incentivo per far sì che gli sfollati rimandino sempre più avanti nel tempo il ritorno alle loro terre, creando così anche un contrasto sempre maggiore con la popolazione locale.
Ci avviamo verso la base, decisamente perplesso guido assorto guardando il paesaggio,continuo a pensare all’incontro appena terminato, mi viene  da accostare le genti appena lasciate e tutti quei gruppi che per una ragione o per l’altra nel corso della storia si sono dovuti spostare dalle loro terre, lasciare le proprie radici senza mai più tornare e ritrovarle...perché un uomo e’ fatto anche della sua piccola storia locale, di quartiere, dei suoi odori,colori,miasmi, e’ talmente una attrazione forte che spesso non si capisce come un popolo sia attaccato ad una terra di semplice sabbia e sassi dagli stenti prodotti; come uccelli ci muoviamo nel pianeta,ma resta sempre quella radice che affonda nel terreno delle nostre origini...
...un gruppo di piccolissimi pappagalli affianca la Jeep poi s’inoltra nel fitto della selva , mi volto e affondo letteralmente negli occhi della ragazza assunta come interprete, una locale, sguardo perlaceo, sorriso gentile , pelle di pesca; vive in una casa di una stanza sola lungo il fiume, ha appena perso la madre per malaria, credo proprio che stasera la inviterò a cena con i miei colleghi, ho visto un ristorantino sull’unica strada asfaltata del paese; Menu: pesce fritto con contorno di patate, insalata di avocado e cipolline del luogo,frutta...Mango

...’’ I think I’ll go to Hellenic restaurant this evening for dinner, it would be nice to go together’’,
“Yeah  why not it’s a great idea”…






Congo, Nord Kivu 7* latitudine  Nord   
16/07/2004
"THE HEART OF DARKNESS"...

La morte, la morte in faccia, la faccia spenta, la mente vuota...
..ero per terra al buio, quasi nell’oscurità totale, un ginocchio per terra, il cellulare che utilizzavo come improbabile torcia faceva ancora luce dal piccolo schermo, poi dopo pochi secondi si  spense.
L’uomo si avvicinò a me e sentii il freddo della canna del Kalashnikof sulla mia nuca, un solo pensiero mi attraversò la mente: Cristo non farmi morire in un modo così.
Secondi interminabili, in bocca avevo ancora il sapore della birra che avevo bevuto istanti prima...istanti prima...senza volontà ripercorsi in pochi secondi la serata...
...Nella piccola città di Beni in cui mi trovo c’e’ ben poco da fare la sera, il giorno mi vede impegnato in un lavoro come coordinatore logista per una ONG italiana in un progetto alimentare per gli sfollati dalla guerra nell’ITURI, regione confinante.
Dopo le tensioni della giornata al calar del crepuscolo sento il bisogno di una birra fresca, magari due...
Così passo a prendere Babu,un mio autista e gli propongo di vagare assieme “al termine della notte” .
La serata e’ cominciata da ‘’Mamma Padiri ’’ che ci prepara il classico Kawunga , una polenta di Mais bianca, con spezzatino di capra , salse a parte come condimento.
Si mangia senza posate, lavandosi le mani in un catino in cui un ragazzo fa’ cadere dall’alto di una brocca l’acqua sulle mani insaponate.
Si beve, la birra scorre giù e poi risale nella mente che già segue lenta i giochi di fumo della sigaretta verso l’alto, verso luoghi lontani.
?Cosa mi ha portato in questo angolo di mondo circondato dalla foresta , da tribù di Pigmei, da soldati di forse sette diversi raggruppamenti, da gente rude, sanguigna, brutale, da organizzazioni umanitarie che si contendono progetti umanitari come agenti di borsa?
Come piena d’incertezze  è la vita da cooperante...
Alla prossima birra l’ignota risposta...
Tutaonana MamaPadiri mbakie musuri, mi congedo in Swahili e continuiamo la serata in un locale lì vicino da cui proviene una musica assordante dall’insegna CASINO’; una volta dentro devo dire che forse l’assenza dell’accento farebbe più onore al vero...CASINO, null’altro che questo: soldati di ogni età, in divisa o abiti civili, qualche fucile; alcuni hanno la pistola infilata nei pantaloni dietro la schiena, sono gli ufficiali in borghese, luci soffuse e palle di specchietti danno all’ambiente un aspetto irreale, un improvvisato DJ crea della musica assordante tipo parco dei divertimenti, e poi donne, ancora donne, sempre donne, più o meno nere, più o meno belle, ma donne, sinuose, ondulate, denti bianchissimi, risate piene di vita nonostante la vita, indispensabili come sempre e come sempre inevitabili...
...Ci sono bottiglie di birra ovunque, centinaia di bottiglie, mi chiedo dove trovino i soldi in mezzo ad un’apparente miseria, l’ebbrezza e’ addirittura palpabile, un uomo alla mia destra tiene particolarmente a salutarmi, gli rispondo in Swahili, non riesce a fare a meno di dirmi, con un respiro da oltretomba, che e’ un tenente e viene da Kinshasa,” non m’interessa molto” penso io anche perché di giorno ne vedo a sacchi, e mi volto dall’altra parte..
...mi alzo, vado alla toilette...
...credo che neanche un Vate come Dante sarebbe riuscito a concepire un simile girone, una spianata fangosa di terra mista ad acqua di pioggia e urina, in un angolo due orinatoi per gli uomini, al buio; un po’ a disagio lascio che un classico cespuglio si presti alla bisogna.
Mi abbottono i Jeans, mi volto e resto decisamente senza parola…a tre metri da me c’e’ una ragazza bellissima vestita di bianco , accovacciata che orina per terra davanti a tutti; si alza ritirando i pantaloni aderenti e se ne va’ cantando verso la sala...Oui’ c’est l’Afrique.
La seguo con lo sguardo; Marley accompagna la sua danza con la sua voce stupenda, unica, inconfondibile.
Poi torno a sedermi, lei viene al tavolo e parla un po’ con il mio compagno di ventura e scopro che è una sua ex fidanzata.
La presenza di così tanti ufficiali in borghese e relative guardie del corpo armate mi rende nervoso, non è certo l’ambiente dove rilassarsi dopo una faticosa giornata passata in un campo profughi a cercare di organizzare le prossime distribuzioni di cibo; così decidiamo di andare a casa di Babu con qualche birra semplicemente ad ascoltare un po’ di musica dalla radio a pile con qualche birra.

Verso mezzanotte decido di rientrare  a casa.
Usciamo nel buio assoluto, mi faccio luce con lo screen del telefonino; fuori dal cancello, un metro dopo la soglia, a pochi passi dalla Jeep, si sente la voce profonda di un uomo, parla in Swahili, ha un tono imperativo, i miei compagni cercano di calmarlo intuendo subito qualcosa di strano, poi....TLA-TLAK riconosco in un attimo la messa in canna di un AK47, mi butto per terra, solamente con un ginocchio, pronto a scappare se si presenta la possibilità, il tutto inconsciamente , in un modo stranamente istintivo come dettato da esperienze di un’altra vita…
Parlano ancora , d’un tratto mi viene il pensiero che possa essere l’uomo della ragazza e che abbia pensato strane relazioni a vedermi andare via con lei ed il mio amico, e a questo pensiero nella mente mi viene una sola frase: “Stò per morire”.

...”E ripensò le mobili tende e le percossi valli, il lampo dei manipoli e l’onda dei cavalli”...

 Dio non posso morire cosi....’
I secondi passano lenti come ore, viene verso di me e mi punta il fucile sul collo...
...sentivo la mente vuota, il corpo leggero, non avevo più sensazioni di tatto, solo la canna del fucile faceva da tramite tra la morte e il mio stato di coma apparente, quel freddo metallo era l’ultima cosa che avrei percepito come sensazione nella mia vita assieme alla vista del buio, come filo d’Arianna il fucile stranamente mi teneva in vita quando stava per darmi la morte, ultimo anello di una incerta catena durata trentacinque anni, rumore di metallo nuovamente…

…”Stette..
                 ... e dei dì che furono l’assalse il sovvenir”..

.. addio vita e’ stato bello, avrei voluto fare di più, avrei  potuto fare di più, stranamente in quel momento non mi venne da pensare a nessuno all’infuori di me, ero egoisticamente concentrato su di me, poi ancor più stranamente mi venne un flash del mio corpo lacerato dal proiettile...
... l’uomo raccoglie il mio cellulare facendosi luce con una torcia,mi tira verso l’alto, mi fruga tutte le tasche,prende il marsupio che da sempre porto  di traverso sulla spalla, fa’ lo stesso con gli altri poi loro in un attimo scappano dentro casa ed io resto solo con lui, mi punta la torcia in faccia , la spegne e per un istante vedo la sua sagoma che si muove nel buio.
Resto fermo alcuni secondi poi decido e mi metto a correre, a poche centinaia di metri c’e’ la base delle Nazioni Unite, non so dove sia riuscito a prendere l’energia ma credo di aver fatto i duecento metri tra me e il cancello delle UN in 19.76.
Correvo a zigzag nella paura che potesse averci ripensato.
Arrivo al cancello delle Nazioni Unite, un gruppo di militari sudafricani in servizio di guardia mi vede arrivare, hanno un’aria allibita, e’ ormai l’una del mattino.
Respiro a pieni polmoni percorso da un fremito, mi offrono una sigaretta per calmarmi, faccio un paio di tiri con le dita che tremano, poi mi volto e vomito l’anima in un fosso.
Mi chiedono cosa sia successo, mi osservano ancora stupiti, io racconto a tratti, poi li guardo negli occhi, guardo le luci sopra il cancello, sento il freddo della notte che mi avvolge, sento l’odore della sigaretta ancora sulle mie dita, per strada passa una moto con un ragazzo seduto dietro, mi guarda e sparisce inghiottito dal buio...
.......
......... la mattina dopo era mattina ed io ero ancora vivo, vivo VIVO
                                                                              ero ancora VIVO...